LA GUERRA E LE VIE DELLA PACE

Il 23 maggio 2024 si è tenuto, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’università Roma Tre, un convegno indetto da Costituente Terra sui temi della guerra e delle vie per contrastarla, sull’impossibilità di una democrazia bellica, e sul ruolo di una Costituzione della Terra per il disarmo globale. L’articolo di Ferrajoli

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1. La guerra come negazione della ragione, della morale, della politica e del diritto – Muoverò da una tesi di fondo. Esiste un’antitesi concettuale tra guerra e ragione, tra guerra e morale, tra guerra e diritto, tra guerra e democrazia, tra guerra e politica, in breve tra guerra e civiltà. La guerra è il massimo crimine contro l’umanità, un “assassinio di massa” come scrisse Hans Kelsen, la forma più disumana e selvaggia delle relazioni tra i popoli, la violazione, diretta o indiretta, di tutti i diritti fondamentali. Esiste, in particolare, un’antinomia insuperabile tra diritto e guerra: non solo perché la guerra è proibita dalla Carta dell’Onu, è qualificata come un crimine dallo statuto della Corte penale internazionale ed è ripudiata dalla Costituzione italiana e da tutte le costituzioni avanzate, ma, prima ancora, per la contraddizione concettuale che fa della guerra – oggi più che mai – la negazione del diritto e del diritto la negazione della guerra: la guerra è la condizione pre-giuridica dei rapporti interpersonali, il cui superamento produce il passaggio dallo stato di natura allo stato civile.
Oggi più che mai, dato che mai come oggi la guerra – la guerra nucleare, in grado di sterminare il genere umano, ma anche la guerra convenzionale, che fa uso di missili e bombardamenti che colpiscono soprattutto le popolazioni civili – è un orrore insensato, intrinsecamente anti-giuridico, che può degenerare nella devastazione illimitata. Fino a un ormai lontano passato esisteva un senso, sia pure discutibile, della nozione di “guerra giusta”, che equivaleva a un limite di diritto naturale al diritto, altrimenti illimitato, di muovere guerra. Oggi parlare di limiti non ha più senso. I suoi potentissimi mezzi distruttivi della guerra hanno infatti travolto tutti i vecchi limiti naturali, essendo divenuti sproporzionati rispetto a tutte le vecchie cause della guerra giusta – come le tres iusti belli conditiones: iusta causa, auctoritas principis, intentio recta – formulate da San Tommaso. Oggi la guerra, ha scritto Norberto Bobbio, “è incondizionatamente un male assoluto” rispetto al quale “siamo, almeno in potenza, tutti quanti obiettori[1]. E “guerra giusta” è oggi una contraddizione in termini, essendo qualunque guerra, che non sia di difesa da un attacco in atto, una guerra intrinsecamente ingiusta, oltre che giuridicamente illecita.

2. L’ineffettività del principio della pace – Il nostro convegno reca il titolo di un bel libro di Bobbio del 1979, Il problema della guerra e le vie della pace. Ed è alle vie della pace che esso è soprattutto dedicato.

Ebbene, dobbiamo subito riconoscere che le vie della pace non sono state tracciate, né tanto meno percorse dal nostro diritto internazionale. Il principio della pace è solennemente proclamato nella carta dell’Onu. Ma è rimasto totalmente ineffettivo. Addirittura è contraddetto dalla conservazione, nell’art. 2 della carta, del principio della sovranità degli Stati, che con il divieto della guerra è in evidente contraddizione. La stessa cosa, del resto, vale per i tanti principi – l’uguaglianza, la dignità di ciascun essere umano, i diritti fondamentali – stipulati nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Pace, uguaglianza e diritti umani sono dunque soltanto enunciazioni di principio, promesse non mantenute.

Quali sono le ragioni di questa ineffettività della pace, di questo sostanziale fallimento dell’Onu e delle sue tante carte dei diritti? E quali sono le vie della pace e dei diritti umani che renderebbero effettivi l’una e gli altri? Penso che le ragioni di questo fallimento siano essenzialmente due. La prima è che queste carte non sono costituzioni rigide, sopraordinate a tutte le altre fonti, statali e internazionali, del diritto, come sono invece le costituzioni delle odierne democrazie avanzate, a cominciare dalla Costituzione italiana. La seconda, ancor più grave, è che in esse non è prevista nessuna garanzia primaria, cioè nessun divieto o obbligo, né tanto meno le relative istituzioni di garanzia, correlative a quelle aspettative negative o positive nelle quali consistono pace, uguaglianza e diritti umani, in assenza delle quali i principi stabiliti sono destinati a rimanere sulla carta. Come ha scritto Papa Francesco nel suo bellissimo messaggio al nostro convegno, è necessario che le dichiarazioni di principio contenute nella carta dell’Onu e nelle tante carte internazionali dei diritti umani siano integrate da effettive garanzie a loro sostegno, e in particolare della pace, in grado di trasformare la realtà.

Sono questi i limiti della carta dell’Onu e delle tante carte dei diritti umani che ne spiegano il fallimento e il cui superamento abbiamo proposto nel nostro progetto di una Costituzione della Terra. Non serve a nulla proclamare la pace se non si introducono le garanzie del disarmo degli Stati e dell’abolizione degli eserciti nazionali. Così come non basta stabilire il diritto alla salute o all’istruzione o il principio della tutela dell’ambiente perché nascano ospedali o scuole o si produca l’intangibilità dei beni vitali della natura. E’ necessario prevedere e istituire un servizio sanitario e un servizio scolastico globali e gratuiti per tutti, un demanio planetario che sottragga alla privatizzazione, alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, una giurisdizione penale obbligatoria per i crimini contro l’umanità, la messa al bando delle armi onde rendere impossibili le guerre e una Corte costituzionale mondiale che annulli le misure liberticide dei regimi dispotici. Sono necessarie, in breve, le garanzie e le istituzioni di garanzia primaria che abbiamo indicato nel nostro progetto di Costituzione e che possono essere introdotte, nell’interesse di tutti, solo da un patto di rifondazione dell’Onu rigidamente vincolante quale è, appunto, una Costituzione della Terra.

Le vicende del principio della pace sono sotto questo aspetto esemplari. Nonostante la sua solenne proclamazione nella carta dell’Onu, le guerre, dopo la nascita delle Nazioni Unite, non sono mai cessate. Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 avrebbe potuto inaugurare una nuova era di pace. Segnò invece la fine dell’equilibrio del terrore e fu vissuto dall’Occidente come una vittoria. Da allora alla  guerra fredda si sono sostituite le guerre calde quali strumenti ordinari di soluzione delle controversie internazionali: in Iraq nel 1991, nella ex Jugoslavia nel 1999, in Cecenia nel 2000, in Afghanistan nel 2001, di nuovo in l’Iraq nel 2003, in Libia e in Siria nel 2011 ed oggi in Ucraina e a Gaza.

L’Onu, frattanto, è stata totalmente emarginata. Conta sempre meno. Non è riuscita a far nulla per impedire e poi per far cessare la guerra, con le sue centinaia di migliaia di morti, scatenata dall’aggressione criminale della Russia all’Ucraina. E a nulla è valso il voto a schiacciante maggioranza dell’Assemblea generale dell’Onu sulla cessazione del fuoco e del massacro nella disgraziata striscia di Gaza: uno sterminio disumano provocato dalle bombe, ma anche dalla fame, dalla sete, dalla mancanza di cure per malati e feriti, cui sono sottoposti due milioni di palestinesi che sopravvivono tra le macerie di un paese devastato.

Una qualche vitalità stanno invece mostrando, non a caso, le istituzioni giurisdizionali di garanzia secondaria. Su ricorso del Sud Africa, la Corte internazionale di giustizia, con l’ordinanza n. 192 del 26.1.2024, ha imposto a Israele di “prendere tutte le misure in suo potere per impedire al suo esercito di commettere atti di genocidio nella Striscia di Gaza” e di “presentare una relazione scritta su tutte le misure adottate per dare attuazione a tale ordine”. Inoltre, con una successiva ordinanza del 24 maggio, ha imposto al governo israeliano di “fermare immediatamente l’offensiva militare a Rafah” e ai capi di Hamas “il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi israeliani”. A sua volta, la Procura penale internazionale, che nel marzo 2023 aveva chiesto l’incriminazione e l’arresto di Vladimir Putin, ha chiesto l’arresto, per crimini di guerra e contro l’umanità, di Benyamin Netanyahu e del suo ministro della difesa  Yoav Gallant, oltre che dei capi di Hamas. Per la prima volta, con l’incriminazione dei governanti di un paese dell’Occidente, la giustizia internazionale acquista credibilità, dando un segno di imparzialità e di indipendenza e, soprattutto, di una concezione egualitaria del diritto penale internazionale quale diritto del fatto e non dell’autore, chiunque egli sia.

Le istituzioni politiche di governo, statali e sovrastatali, sono tutte, invece, penosamente ottuse e irresponsabili. Nel Consiglio europeo del 21 marzo, i governanti europei hanno parlato, con incredibile leggerezza e irresponsabilità, di una possibile scontro tra la Nato e la Russia sul suolo europeo, e quindi della necessità di un’ulteriore corsa al riarmo; come se uno scontro tra potenze nucleari potesse svolgersi senza il rischio di una sua deflagrazione atomica, che provocherebbe la devastazione dell’intero continente europeo, e come se gli armamenti di cui dispongono la Nato e la Russia non fossero sufficienti a distruggere centinaia di volte l’intero genere umano. Si sta parlando, in breve, della possibilità di una terza guerra mondiale. Non dimentichiamo che le guerre assai spesso avvengono per un incidente, o un equivoco o un errore. E nel clima bellico sviluppatosi in Europa, incidenti, equivoci ed errori sono altamente probabili. Il tabù della guerra atomica, che ci ha protetto negli anni della guerra fredda, sembra oggi scomparso.

3. Le possibili garanzie costituzionali della pace. Rendere impossibili le guerre: l’abolizione degli eserciti e la messa al bando delle armi – A sostegno di questa follia si dice, come sempre, che non ci sono alternative. L’alternativa invece esiste. C’è l’alternativa immediata di una conferenza internazionale di pace su entrambi i conflitti, quello in Ucraina e quello a Gaza, che in base all’art. 20 della Carta dell’Onu potrebbe essere convocata su richiesta della maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite e rimanere riunita in permanenza finché non si pervenga alla pace: una conferenza di pace nella quale i paesi della Nato, ben più che con l’invio di armi, potrebbero aiutare e affiancare l’Ucraina con tutto il peso della loro potenza.

Ma la vera alternativa è più di fondo. Domandiamoci infatti: quali sono le garanzie che renderebbero impossibili le guerre e che sarebbero in grado di assicurare la pace perpetua auspicata più di due secoli fa da Emanuele Kant? Io credo che non bastino, anche se ovviamente vanno difesi e incoraggiati, i vari trattati di non proliferazione o anche di divieto delle armi nucleari. Penso che le uniche, vere garanzie, che abbiamo indicato nel nostro progetto di una Costituzione della Terra e alle quali ho già accennato, siano essenzialmente due.

La prima garanzia, auspicata da Kant in Per la pace perpetua del 1795, è l’abolizione degli eserciti nazionali[2], i quali servono solo a fare le guerre o anche, come troppe volte è accaduto, colpi di stato contro i loro popoli e i loro legittimi governi. La seconda garanzia, ancor più importante, è quella, teorizzata da Thomas Hobbes, del disarmo dei consociati[3], che nella società internazionale sono gli Stati, e perciò la messa al bando come beni illeciti non solo di tutte le armi nucleari e delle altre armi di distruzione di massa, ma anche di tutte le armi da guerra. In qualunque società, scrive Hobbes, il passaggio dalla guerra propria dello stato di natura allo stato civile avviene con il patto sociale consistente nel disarmo dei consociati e nella stipulazione del monopolio pubblico della forza.

Le armi – tutte le armi, quelle da guerra e quelle da sparo – servono per uccidere. La loro produzione, il loro commercio e la loro detenzione dovrebbero perciò essere configurate come delitti gravissimi sia nel diritto statale che nel diritto internazionale, dove ben potrebbero essere inclusi tra i crimini di competenza della Corte penale internazionale indicati nell’art. 5 del suo statuto. Non solo. Ogni assassinio, ogni aggressione terroristica o criminale, ogni guerra dovrebbero essere configurati come crimini non solo dei loro autori ma anche di coloro che li hanno armati, nell’ovvia consapevolezza del loro possibile uso criminoso. Solo la previsione come crimini gravissimi e adeguatamente puniti di questi produttori di morte può rendere impossibile la guerra. Continueranno, certo, ad essere occultate molte delle armi da sparo esistenti. Ma non sarà facile, come avviene con le droghe, la loro ulteriore produzione clandestina. Certamente si continuerà ad uccidere: con i veleni e con altri mezzi. Ma è inconcepibile una guerra con i veleni o con i coltelli da cucina.

Ma al di là del diritto – e anche al fine di raggiungere l’effettiva penalizzazione giuridica delle armi – io credo che sia compito di qualunque movimento pacifista, e lo sarà certamente di Costituente Terra, far crescere nel senso comune e nell’opinione pubblica la stigmatizzazione di questi venditori di morte, cioè delle grandi imprese produttrici e venditrici di armi, come moralmente corresponsabili delle guerre, dei terrorismi e di tutte le organizzazioni criminali che fanno uso degli armamenti da essi prodotti. Sono imprese in prevalenza statunitense, ma tra di esse ci sono anche le nostre Leonardo e Fincantieri, che fanno dell’Italia il quarto paese esportatore di armi al mondo, dopo gli Stati Uniti, la Russia e la Francia. Ebbene, un’efficace campagna diretta a raggiungere il disarmo globale e totale dovrebbe far crescere, nel senso comune e nella pubblica opinione, il banale riconoscimento di una corresponsabilità morale, in ogni guerra e in ogni assassinio, dei produttori e dei venditori di armi. Giacché è da questi produttori di morte che sono armati eserciti, associazioni criminali, bande terroristiche e assassini.

E’ chiaro che in assenza di queste due garanzie – lo scioglimento degli eserciti e il divieto della produzione e del commercio delle armi – le guerre sono avvenute, impunemente e costantemente, non potevano non avvenire e continueranno ad avvenire, non meno dei terrorismi e della criminalità sovranazionale. E’ anche chiaro che queste garanzie possono essere stipulate soltanto sulla base di una rifondazione dell’Onu, cioè della sua costituzionalizzazione quale proverrebbe dalla trasformazione della sua carta statutaria in una vera Costituzione della Terra. E’ questo, aggiungo per inciso, lo “scopo” imposto dall’art. 11 della nostra Costituzione, secondo cui l’Italia “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali” “necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”: pace e giustizia che possono essere raggiunte, ripeto, solo dall’introduzione costituzionale delle loro garanzie e delle relative funzioni e istituzioni di garanzia.

Dunque, la principale garanzia della pace e della vita consiste nella rigida messa al bando di tutte le armi come beni illeciti. Vanno messi al bando, anzitutto, gli armamenti nucleari, che pesano come una permanente minaccia sul futuro dell’umanità. Attualmente – sono i dati del 2021 – le testate nucleari nel mondo sono 13.133, in possesso di nove paesi: 6.257 in Russia, 5.550 negli Stati Uniti, 350 in Cina, 290 in Francia, 225 nel Regno Unito, 165 in Pakistan, 156 in India, 90 in Israele e 50 nella Corea del Nord. E’ stato un miracolo che esse fino ad oggi non siano state usate – per un incidente, per la loro caduta nelle mani di un’organizzazione terroristica o per la conquista del potere da parte di un pazzo in qualcuno degli Stati che ne sono in possesso[4]. Ma non possiamo affidarci ai miracoli e pensare che essi possano ripetersi indefinitamente.

Ma una Costituzione della Terra dovrebbe mettere al bando tutte le armi da sparo, anche quelle non da guerra, la cui diffusione provoca ogni anno milioni di morti. Nel solo 2017 si sono consumati, nel mondo, 464.000 omicidi, per la maggior parte con armi da fuoco, e sono morte centinaia di migliaia di persone nelle tante guerre – 58 solo nel 2023, quasi tutte civili – che infestano il pianeta. Si aggiungano i numeri altissimi dei suicidi e degli infortuni causati dall’uso delle armi. E’ un assurdo massacro, dovuto in gran parte alla diffusione delle armi e massimo, non a caso, nel continente americano dove è più facile acquistarle. Ne è prova la differenza abissale tra il numero degli omicidi ogni anno in paesi nei quali il possesso di armi da fuoco è generalizzato e tutti si armano per paura e quello nei quali quasi nessuno va in giro armato. Sempre nel 2017 ci sono stati 63.000 omicidi in Brasile, 29.168 in Messico, 17.284 negli Stati Uniti e 357, di cui 123 femminicidi (scesi a 298 nel 2023, di cui 119 femminicidi) in Italia, dove quasi nessuno è in possesso di armi.

Una campagna contro le armi dovrebbe essere insomma il primo obiettivo di ogni forza politica di progresso. Essa deve muovere dal riconoscimento di un fatto elementare: la diffusione delle armi mostra che non si è compiuto, neppure all’interno degli Stati nazionali – non, certamente, in quelli nei quali chiunque può acquistare un’arma micidiale – e meno che mai nella società internazionale, il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, che avviene appunto con il disarmo dei consociati e il monopolio pubblico della forza. La produzione, il commercio e la detenzione delle armi sono il segno di una non compiuta civilizzazione delle nostre società e il principale fattore dello sviluppo della criminalità, dei terrorismi e delle guerre. L’abolizione delle armi, soprattutto nei paesi nei quali è più alto il numero degli omicidi, come gli Stati dell’America, del nord e del sud, avrebbe inoltre un enorme effetto di carattere pedagogico: la riduzione della violenza nel costume e nelle relazioni sociali e perciò una crescita, a livello di massa, della maturità civile, intellettuale e morale.

4. Due visioni opposte del futuro del mondo – Non si tratta di una proposta utopistica. Si tratta dell’unica alternativa realistica a un futuro di catastrofi. Dobbiamo essere consapevoli che oggi l’umanità sta attraversando il momento più drammatico della sua storia. Si trova infatti di fronte a un’alternativa mortale: la guerra infinita, se non ci sarà un risveglio della ragione, o la pace perpetua, fondata sulla rifondazione del costituzionalismo a livello globale; l’accettazione della guerra – non diversamente dalle altre catastrofi globali, dal riscaldamento climatico alla crescita delle disuguaglianze e alle devastazioni prodotte dall’assenza di limiti e vincoli agli odierni poteri selvaggi degli Stati e dei mercati – oppure l’alternativa del diritto e della ragione, cioè la via della pace attraverso le garanzie del disarmo globale e totale.

4.1. La guerra infinita – La prima alternativa, la più miope, è anche, purtroppo, la più probabile. La sua maggiore probabilità, quale guerra infinita perché alimentata senza fini dagli opposti fondamentalismi e dalla logica dell’odio e del nemico, è determinata da tre fenomeni, tanto minacciosi quanto insensati, tutti in vario modo espressioni del trionfo della demagogia e dell’irresponsabilità delle politiche dei nostri governanti.

Il primo fenomeno è l’aumento degli armamenti. Le spese in armamenti sono in questi ultimi 20 anni costantemente aumentate fino a raggiungere, nel 2023, la somma di 2.240 miliardi di dollari. La spesa maggiore, pari al 40%, è stata spesa dagli Stati Uniti. Ma anche l’Italia, nonostante la disastrosa situazione economica, si è impegnata ad elevare la spesa militare fino al 2% del suo Pil. La Nato spende oggi il 56% della spesa militare globale. Si è anche interrotto il processo di riduzione degli armamenti nucleari, avviato nel 1968 dal Trattato di non proliferazione nucleare, ripreso poi nel 1987 da un altro trattato fra Ronald Reagan e Michail Gorbačёv, grazie al quale il numero delle testate nucleari nel mondo è sceso da 69.440 a 13.133, e annullato nel 2018 da Donald Trump, che ha ritirato gli Stati Uniti dal trattato, così riaprendo la corsa agli armamenti, a dispetto del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) votato due anni prima, il 7 luglio 2017, da ben 122 paesi, cioè dai due terzi dei membri dell’Onu.

Il secondo fenomeno che rende più probabile un futuro di guerre è la mutazione della natura e del ruolo della Nato. Il trattato di Washington del 4 aprile 1949, con cui la Nato fu istituita, finalizzava l’Alleanza a scopi puramente difensivi. Il suo famoso art. 5 prevedeva il suo intervento solo in caso di “attacco armato” contro uno dei suoi membri “in Europa o nell’America settentrionale”. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda la Nato, anziché sciogliersi per il venir meno del suo principale nemico, si è sviluppata con l’inclusione di tutti i paesi del vecchio patto di Varsavia e si è rafforzata sulla base di ben quattro nuovi “concetti strategici”, che hanno allargato il suo raggio d’azione al Nord Africa, al Medio Oriente e all’Afghanistan e i presupposti dei suoi interventi – la lotta al terrorismo, le operazioni di peace-keeping, le guerre di difesa preventiva, i cosiddetti interventi umanitari e, in generale, le azioni in difesa della “sicurezza degli alleati” – ben oltre il limite stabilito dall’art. 5 del suo statuto. Nessuna di queste modifiche apportate da questi “concetti strategici”, che hanno trasformato la Nato da alleanza puramente difensiva in un’alleanza finalizzata a risolvere con interventi militari le crisi e le controversie internazionali, è mai stata sottoposta alla ratifica del Parlamento italiano e di gran parte dei Parlamenti degli altri paesi membri. Siamo di fronte a violazioni clamorose dell’art. 11 della nostra Costituzione sul ripudio della guerra e anche dell’art. 53 della carta dell’Onu, secondo cui “nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza”.

Il terzo fenomeno è il clima di guerra alimentato dai governi e dai media nell’opinione pubblica e una sorta di militarizzazione delle nostre democrazie. E’ un clima che si manifesta nell’intolleranza per qualunque proposta di soluzione pacifica dei conflitti e nella gara di insulti nei confronti della Russia di Putin, il cui solo effetto è minare la possibilità stessa dei negoziati. Esso segnala un intento inquietante: la volontà che la guerra prosegua per ottenere la sconfitta della Russia, o quanto meno la sua umiliazione nel pantano di una guerra fallita, e anche per consolidare la subordinazione dell’Europa alla politica di potenza degli Stati Uniti. Lo stesso clima si è creato intorno alla guerra contro Gaza, nella quale si è elevato al rango di uno Stato in guerra l’organizzazione criminale di Hamas – il massimo regalo che poteva farsi al terrorismo – così coinvolgendo nella rappresaglia e nello sterminio la popolazione palestinese.

Si sta così rilanciando, in entrambe le guerre, lo scontro identitario di civiltà tra democrazie e autocrazie, tra mondo libero e mondo incivile, anche a costo del rischio di un disastro nucleare. E’ chiaro che nei tempi lunghi questa strada può portare solo alla catastrofe. Gli odi tra gli opposti schieramenti non possono che determinare lo sviluppo degli opposti nazionalismi, che come i fondamentalismi hanno la perversa tendenza ad alimentarsi a vicenda, quali potenti veicoli della logica del nemico.

4.2. La pace perpetua – Ben più improbabile risulta quindi la nostra seconda alternativa, quella pacifista di un negoziato di pace che fermi le due guerre in atto a qualunque, ragionevole costo: come l’assicurazione che l’Ucraina non entrerà nella Nato e magari l’autodeterminazione delle sue regioni russofone sulla base di un voto popolare, ovviamente sotto il controllo dell’Onu; oppure come, nel conflitto israelo-palestinese, la creazione dei due Stati, la Palestina accanto a Israele, oppure la pacifica convivenza di ebrei e islamici in un unico Stato fondato sull’uguaglianza e sulla laicità.

E’ in direzione di questa seconda ipotesi che l’art. 11 della nostra Costituzione obbliga l’Italia a impegnarsi. Tale articolo, ho già ricordato, non contiene soltanto il ripudio della guerra, ma anche il progetto della promozione, da parte dell’Italia, delle “organizzazioni internazionali rivolte” allo scopo di sviluppare “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. In attuazione di questi doveri costituzionali oltre che dello spirito della Carta delle Nazione Unite, l’Italia dovrebbe non solo svolgere un ruolo di mediazione al fine del raggiungimento della pace, ma anche proporre il superamento progressivo di tutti gli armamenti del pianeta quale condizione elementare della sicurezza collettiva e della pacifica convivenza.

E invece, ripeto, nell’attuale clima di guerra proseguono la corsa al riarmo e la crescita delle spese militari. Come si spiega questa corsa insensata ad accumulare ulteriori, inutili armamenti? Si spiega, certamente, con la volontà di potenza che sempre alimenta tutti gli imperialismi. Ma ci sono soprattutto due fattori che spiegano questo clima bellicista e questa corsa al riarmo.

Il primo è la pressione del mercato delle armi. La presenza degli armamenti e degli eserciti nazionali è una causa non secondaria, forse la principale, delle guerre. E’ la tesi sostenuta, più di due secoli fa, da Immanuel Kant nel passo già ricordato: “gli eserciti permanenti”, egli scrisse, “devono col tempo interamente scomparire”, dato che “diventano essi stessi la causa di guerre aggressive”. Ma è anche ciò che sostenne, alla fine del suo mandato, Dwight Eisenhower, che certamente s’intendeva di armi e di politica essendo stato il vincitore della seconda guerra mondiale e il presidente per otto anni degli Stati Uniti. Egli parlò apertamente della minaccia, per la pace e per le democrazie, proveniente dalla potenza dell’apparato militar-industriale. Anche per questo la battaglia per il disarmo è il primo obiettivo di qualunque politica pacifista.

Il secondo fattore è di carattere culturale. E’ la logica del nemico che alimenta il conflitto tra Occidente ed Oriente, tra democrazie e autocrazie e serve a costruire, nel vuoto intellettuale e morale di contenuti programmatici, le identità delle forze politiche. E’ questa logica che informa non soltanto le politiche estere ma anche le politiche interne. Essa si riflette nel clima avvelenato nel quale si è svolto in questi quattro anni il dibattito sulla guerra in Ucraina. Non è stato un dibattito basato sul dialogo, sul confronto razionale e sul rispetto delle opinioni altrui, ma uno scontro radicale fondato sulla logica del nemico, sulle ossessioni identitarie, sull’intolleranza per le opinioni dissenzienti, sul costante sospetto della malafede degli interlocutori e sulla loro stigmatizzazione morale. Del tutto assenti sono stati l’atteggiamento problematico, l’incertezza, il dubbio, l’interesse per i punti di vista diversi dai propri e la consapevolezza della complessità dei problemi che sempre dovrebbero informare la discussione pubblica.

Contro questo clima di contrapposizioni è necessaria una battaglia culturale diretta a creare una nuova antropologia dell’uguaglianza e della solidarietà, che escluda ogni forma di imperialismo o di nazionalismo aggressivo, di razzismo o di suprematismo, di maschilismo o di classismo, di antisemitismo o di islamofobia e, in generale, la logica del nemico e i conseguenti conflitti identitari. L’idea del nemico, infatti, contraddice radicalmente i principi di uguaglianza, di dignità della persona e di solidarietà. Comporta sempre la contrapposizione tra “noi” e “loro”, dove “noi” equivale al bene e “loro” al male e “noi” abbiamo ragione e “loro” torto, quali che siano i “noi” e i “loro”. Contrariamente alle tesi di Carl Schmitt, l’idea del nemico, nella teoria della democrazia, tanto più se cosmopolita, non è la forma, bensì la negazione della politica, oltre che del diritto. Purtroppo nel nostro paese, e in generale in Europa, si è sviluppato un orientamento esattamente opposto. Si è creato, sulla guerra, un clima velenoso che si manifesta nella consueta tesi che non esistono alternative al riarmo e nell’intolleranza settaria, a-critica e a-problematica nei confronti di qualunque opzione pacifista.

5. La pace quale condizione per affrontare tutte le altre catastrofi globali – Infine, un’ultima considerazione sulla pace come obiettivo prioritario rispetto a qualunque altro. Il pericolo delle guerre e l’incubo nucleare sono soltanto uno dei tanti pericoli che incombono sul nostro futuro. Ma è la pace la condizione che rende possibile la soluzione di tutti gli altri problemi globali, dal riscaldamento climatico alle crescenti disuguaglianze, dallo sfruttamento del lavoro al dramma di centinaia di migliaia di migranti ciascuno dei quali fugge da uno di questi crimini di sistema. La pace, infatti, non è solo fine a se stessa. E’ anche il presupposto necessario per generare un rinnovato dialogo tra le grandi potenze in ordine a tutte queste altre sfide globali che minacciano l’intera umanità. E’ infatti chiaro che solo in un clima di pace può maturare la consapevolezza dell’esistenza di sfide a tutti comuni, che richiedono l’accordo su risposte comuni e perciò il dialogo, il confronto e la solidarietà nella loro progettazione e, soprattutto, nella loro realizzazione.

La pace è perciò la condizione pregiudiziale del costituzionalismo globale, cioè di una rifondazione costituzionale dell’Onu e dello sviluppo a suo sostegno di un movimento d’opinione planetario. Purtroppo, la rassegnazione generale di fronte alle guerre si avvale di una diffusa antropologia reazionaria, razionalmente e moralmente insostenibile: il luogo comune dell’inevitabilità della guerra, sostenuto talora con argomenti storicistici, come la tesi che la guerra c’è sempre stata, o peggio antropologici, come l’idea di un’intrinseca natura violenta dell’essere umano.

La messa al bando della guerra, al contrario, sarebbe, tecnicamente, l’obiettivo più semplice e facile rispetto a tutti quelli proposti dalle altre grandi sfide – come il riscaldamento globale, la crescita delle disuguaglianze e delle violazioni dei diritti umani, lo sfruttamento selvaggio del lavoro il dramma dei migranti – che minacciano l’umanità. Si tratta semplicemente di mettere al bando tutte le armi e di sciogliere gli eserciti nazionali. Le difficoltà sono solo quelle rappresentate dai giganteschi interessi delle industrie e del commercio delle armi e dai miseri poteri politici ad essi asserviti o che di essi si servono a fini di potenza.

Questa facilità tecnica e questa difficoltà politica della soluzione del problema della guerra sono il segno più clamoroso del contrasto tra società e potere, tra ragione e miopia politica, tra popoli e sistemi di governo, tra gli interessi di tutti gli esseri umani e gli interessi dell’apparato politico ed economico. E’ la potenza di questi interessi, unita al fatto che nessuno Stato disarmerà unilateralmente se non disarmeranno tutti gli altri, e non certo la natura umana o una qualche filosofia della storia, che sono alla base delle difficoltà che si oppongono alla pace. Ma allora è evidente come la pace potrà essere raggiunta dagli Stati solo se questi la decideranno tutti insieme, simultaneamente al disarmo generale, attraverso la rifondazione costituzionale e garantista della carta dell’Onu.

[1] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, p. 10. “Di fronte alle armi atomiche”, aveva già affermato Bobbio nelle Lezioni sulla guerra e sulla pace (1965), rist. a cura di T. Greco, Laterza, Roma-Bari 2024, § 48, p. 211, “nessuna delle giustificazioni razionali, che finora sono state date alla guerra, ha più alcun valore”.

[2] I. Kant, Per la pace perpetua cit., sezione prima, § 3, in Id., Scritti politici e di filosofia della sto­ria e del diritto, tr. it. di G. Solari e G. Vidari, ediz. postuma a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Utet, Torino 1965, p. 285.

[3] T. Hobbes, Leviatano, ossia la mate­ria, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, con testo inglese del 1651 a fronte, tr. it. a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, cap. XVII, § 13, pp. 281 e 283, dove Hobbes afferma che se gli uomini vogliono la pace e la sicurezza, “l’unica maniera è quella di conferire tutto il loro potere e la loro forza a un solo uomo o a un’assemblea di uomini… Fatto questo, la moltitudine così unita si chiama Stato, in latino civitas… a cui dobbiamo la nostra pace e la nostra difesa”

[4] Chomsky ricorda che per ben tre volte fu evitata per miracolo una guerra nucleare grazie al coraggio di tre militari – il russo Vasilij Archipov nel 1962, il russo Stanislav Petrov nel 1983 e lo statunitense Leonard Perroots nel 1989 – che decisero autonomamente di non rispettare le procedure prescritte, cioè di non far nulla di fronte all’allarme di un attacco nemico (Insieme per salvare il pianeta, [2020], tr. it. di V. Nicolì, Ponte alle Grazie, Milano 2023, pp. 33-34).

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